‘«In piedi,» disse il professore, «il tuo nome?»
Balbettò qualcosa di incomprensibile.
«Ripeti.»
Lo stesso balbettio di sillabe si fece udire, e fu sopraffatto dagli schiamazzi della classe.
«Più forte,» gridò l’insegnante, «più forte!»
Allora, con estrema decisione, il nuovo spalancò una bocca smisurata e a pieni polmoni, quasi invocasse qualcuno, lanciò una parola del genere: «
Charbovari!»
Fu tutto un grande strepito, salì in crescendo, con acuti scoppi di voci (si urlava, si abbaiava, si trepestava, si ripeteva perdutamente: «
Charbovari! Charbovari!»), poi si frantumò in note isolate, placandosi a stento, per riprendere a un tratto in una fila di banchi, ove scoppiettava ancora, come un petardo non spento, qualche risatina soffocata.’
Fa un’entrata in scena un po’ imbarazzante, da ragazzo dai riflessi bovini e sempliciotti, il personaggio di Charles Bovary, marito becco ed ignaro della protagonista di
Madame Bovary di Gustave Flaubert.
Sono sincera: il personaggio di Emma Bovary non m’ha suscitato né simpatie né antipatie. In quanto consorte adultera reiteratamente di un uomo nei confronti del quale prova disprezzo ed insofferenza, avrebbe forse dovuto attirare qualche sentimento malevolo, ma non è stato così; in quanto donna che si ritrova in una situazione matrimoniale che non la soddisfa e dalla cui gabbia cerca di sfuggire rifugiandosi in relazioni extraconiugali, esponendosi quindi alla possibile berlina dello stigma sociale, non m’ha fatto provare empatia e/o giustificazione alcuna verso la sua condotta. Nel finale, Emma muore. Muore male. Tutto quello che ho pensato è stato: boh, se l’è voluta.
Desolée.